UNA CENTURIA PARALLELA
di Salvatore Silvano Nigro
Manganelli non smise mai di corteggiare il Decameron. Vi si addentrò spesso. Ma scelse sempre una via d’accesso non convenzionale. Entrò nel libro di Boccaccio attraverso il labirinto e la visionarietà del Corbaccio, per via inferica. Voleva disorientare il libro e le novelle attraverso il trattatello, e attraverso l’irrealtà dei sogni e le anamorfosi delle «visioni». E soprattutto voleva evitare il “romanzo” della lieta brigata. Con il romanzo, Manganelli aveva un problema personale, e di postazione. Era convinto, insieme a Landolfi, che bastasse il principio di un’idea per far morire sul nascere il progetto di un racconto. E il romanzo presupponeva addirittura, secondo Ippolito Nievo, «quattro metri cubi d’idee». Manganelli andò aspirando tutta quell’aria “ideologica” , per asfissiare il romanzo e lasciar sopravvivere soltanto dei disorientati racconti. Il Decameron di Manganelli è il “romanzo” di Boccaccio al netto delle «idee», il Centonovelle ovvero Centuria: «cento piccoli romanzi fiume», cento racconti di «quaranta righe» senz’aria, che precipitano l’un dietro l’altro (e con loro il lettore, come da un piano all’altro di un grattacielo, giù a precipizio da una finestra), sotto quella marcata costrizione metrica (da sonetto) che è suggerita dal particolare della stampa giapponese in stile impetuoso, ukiyo-e, di Hiroshige, scelto da Manganelli per la copertina. Centuria non prevedeva illustrazioni. E non è illustrabile. Le illustrazioni diventerebbero didascalie, e quindi prevaricazioni di «idee». Centuria può solo essere inseguito con le orecchie, più che con gli occhi - per via di suono insomma, come l’Apocalisse del visionario Giovanni - da un “lettore” discenditivo che riga per riga, da piano a piano, assecondi la lettura collaborativa di un complice, mentre si fa risucchiare verso il grado zero dello schianto finale. Oppure un altro tipo di lettore visionario Centuria ammette, fuori posto anch’esso, dislocato nelle tenebre dentro un (landolfiano) «abitacolo spaziale».
Mentre Manganelli scriveva i suoi racconti, si trastullava con i più «macchinosi» poeti barocchi, e proponeva a Einaudi di pubblicare una delle «stravaganze d’Italia», la Centuria di leporeambi di Ludovico Lepòreo: un libro di cento sonetti (misura divenuta manieristica e barocca, tra le Centurie di Nostradamus e quelle di Boccalini). Il «leporeambo» è una organizzata festa per le orecchie, una visione di suoni che corrono da un bisticcio a un’allitterazione, a una rima al mezzo, verso gli schianti di un’ esplosione pirotecnica.
Solo una fantasia araldica può tradurre in immagini l’acutezza formale, la sperimentazione di una animata centuria. Non interpretando o commentando. Ma piuttosto predisponendo una centuria parallela sull’asse di una congeniale combinazione “metrica” dei colori, trattati come voci che l’astrazione matematica di una legione di “sonetti” organizza e mette in moto. E parallela a quella di Manganelli è la Centuria araldizzata da Paolo della Bella. Ci voleva un poeta dell’immagine, come della Bella, che i suoi giochi d’intelligenza combinatoria ha declinato dentro quella storia della pittura che da Dubuffet arriva a Baj, reinventando il fauvisme attraverso l’informale materico, perché un’impresa così ardua potesse realizzarsi.
Per qual tanto di vegetale e di vegetante che la Centuria di della Bella esibisce nella sua “immaginaria” narrazione parallela, è quasi obbligatorio pensare alle allucinazioni grafiche che il disegnatore Leo Lionni fece sbocciare per «paragerminazione» linguistica nel suo manuale di botanica fantastica detto anche La botanica parallela. Scrisse Lionni, a proposito delle sue piante che, prima di essere piante, erano parole: «il soggetto del libro, in fondo, non è una flora fantastica ma la fantasia stessa alla quale ho tentato di dare, attraverso il racconto di una vegetazione inesistente, una sua solidità poeticamente misurabile, e alla quale anch’io ho finito per credere».
Manganelli aveva richiesto un lettore di collocazione non convenzionale, e addirittura arbitraria e estrema. Della Bella esclude le soluzioni traumatiche proposte da Manganelli. Ma non se ne inventa una ex novo. Rimane pur sempre in un ambito manganelliano. E si fa parallelista, come il Manganelli lettore nel Pinocchio parallelo. Sa che se di due libri uno è parallelo, lo è per definizione anche l’altro. Risiede in questo principio di logica la profonda ambiguità (sublimemente letteraria) dell’operazione, che per paradosso rende autonome due reciproche dipendenze.
Della Bella non è nuovo a imprese del genere. Aveva già «visitato» e in qualche modo parallelizzato la Phytognomonica di Della Porta. E aveva araldizzato in una «festa per gli occhi» i banchetti e le nozze, le feste e i caroselli, di un disegnatore e acquafortista secentesco suo quasi omonimo: di quello Stefano della Bella, che lui, Paolo, si è compiaciuto di adottare come proprio antenato. Ma solo da Manganelli si è fatto attraversare in un rapporto di possessione, come in uno strano e fantastico caso di due corpi, e di due opere, con un’unica coscienza (letteraria).
|